Quando si interrompe il “contratto” matrimoniale, a seguito della separazione coniugale, si vorrebbero vederne annullate tutte le clausole, come avviene in altre fattispecie contrattuali.
Ma il matrimonio, come sappiamo, implica – specialmente in presenza di figli – il permanere di responsabilità quali, ad esempio, l’assegno di mantenimento al coniuge economicamente più debole.
Nella prassi, sono in genere i mariti che devono continuare a versare alle mogli separate emolumenti che, secondo la suddetta logica contrattuale, sembrerebbero non più dovuti.
Questi coniugi provano, quindi, profondo rancore perché considerano un’ingiustizia dover continuare a mantenere le mogli ormai non più legate “contrattualmente” a loro.
A mio avviso va tenuto conto che il ‘vissuto psicologico’ non è necessariamente, anzi non è quasi mai, allineato con il ‘dovuto giuridico’: sentirsi ingiustamente sfruttati è un pernicioso sentimento che a volte induce anche una denegata triangolazione dei figli: “Perché vostra madre non va a lavorare?”, “Perché ancora la devo mantenere se non è più mia moglie?” sono solo alcune delle domande che sentiamo in questi casi.
Il più delle volte, questo senso di ingiustizia derivante da un codice civile percepito “a tutto vantaggio delle donne”, può venir stemperato dagli effettivi, seppur talora inefficaci, tentativi delle mogli separate di trovare un lavoro o altri modi per rendersi economicamente autosufficienti, mentre avvilisce ancor di più i padri separati assistere al passivo adagiarsi delle donne sugli assegni di mantenimento.
Sono sentimenti, questi, che, pur cozzando a volte contro la ratio della legge, hanno una loro ragione d’essere: non tenerne conto significa esasperare la conflittualità tra gli ex-coniugi, anche con ricadute sui figli, mentre affrontarli potrebbe contribuire a ridare dignità alle persone anche nei momenti più critici.
Dott.ssa Marisa Nicolini
Psicologa-psicoterapeuta
Ctu del Tribunale di Viterbo
Via A. Polidori, 5 – Viterbo
Cell. 328 8727581
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